domenica 12 marzo 2017

PROPHECY GIRL: I DON'T WANT TO DIE



PROPHECY GIRL (scritto e diretto da Joss Whedon)

—I have to meet my terrible fate.
—What?
—Biology.

Prophecy Girl è l'episodio cui la stagione ci ha lentamente preparati. Ciò che all'inizio, e per un po', era sembrato strano, bizzarro, fantastico è a questo punto la normalità dei personaggi e dello show. Abbiamo accettato il fatto che Buffy è una distopia culturale, non il solito show americano che racconta la fiabetta dell'integrazione all'interno di una immanente struttura patriarcale. Non solo l'eroe è una donna, ma i geek sono i "cool kids", i genitori sono assenti, le figure paterne fragili, quelle maschili castrate o inibite, l'adolescenza una cosa seria e non il posteggio prima dell'età adulta.



Al contempo, Buffy ci ha introdotto a un nuovo tipo di televisione al cui centro c'è l'autore, nella fattispecie Joss Whedon, il primo showrunner con una "fan base". Non solo Whedon scrive direttamente per la generazione di teenager dell'epoca (e con loro dialoga) ma coglie lo spirito dei vent'anni di TV successivi e, con il suo lavoro sul linguaggio, caratterizza più di chiunque altro il passaggio dalla TV autoreferenziale degli anni '70-'80 (p.e. Happy Days) a quella odierna che intrattiene un incessante dialogo con la cultura pop (per rimanere nello stesso genere dell'esempio precedente, That's '70s Show o The Goldbergs). Come se non bastasse, Whedon rivoluziona l'uso della musica pop in TV integrandola nello show e nel contesto sociale e culturale dei protagonisti. Già che c'è rispolvera l'episodio tematico—à la The Twilight Zone tanto per intenderci—adattandolo alla serialità e trasformandolo di volta in volta in studio di personaggio, pausa riflessiva, decostruzione, capriccio o qualsiasi cosa di cui la storia abbia bisogno in un particolare momento. Infine, è il primo a usare in TV, peraltro senza abusarne, il flashback come "origin story" che si sviluppa parallelamente alla storia principale. Se escludiamo il garbato "bianchismo" dello show, possiamo tranquillamente dire che Buffy ha fatto la storia della televisione.

Tomorrow night Buffy will face The Master and she will die.


E poi, come accennato all'inizio, Buffy prende sul serio l'adolescenza o, per meglio dire, prende sul serio il fatto che gli adolescenti, come i personaggi di un melodramma, si prendono sul serio. Il che conduce, ovviamente, a un sacco di momenti melodrammatici ma anche epici, eroici o puramente drammatici come quando, nella scena più bella dell'episodio, Buffy sente Giles e Angel che parlano del Pergamum Codex—la profezia nella quale è annunciata la morte della slayer—e torna a essere una semplice ragazzina di sedici anni (anche se poi, più tardi, accetterà che se morte dev'essere tanto vale che sia, e affronterà The Master).

Fino a questo punto Buffy è stata più che altro una sorta di ninja con superpoteri e non ha ancora pienamente accettato il suo destino, cioè il fatto che l'etologia slayer è come quella papale, solo molto più feroce: morta una se ne fa un'altra. E' solo qui, quando incomincia a flirtare con la morte che Buffy cresce e cresce il personaggio... e la storia fa qualcosa di mai visto giocando al rialzo e ribaltando il luogo comune per cui sia il maschile a intrattenere un rapporto privilegiato con la morte mentre il femminile lo avrebbe altrettanto intenso ma con la vita. In fondo un rapporto diretto con la morte (e i morti) è parte integrante del lavoro di Buffy... Whedon però va oltre lasciando emergere in Buffy una peculiare attrazione per la morte che ne definirà irreversibilmente il carattere.

He's not going Anywhere. Loser...


Alla resa dei conti Buffy effettivamente muore per qualche minuto prima di essere ravvivata da Xander e rinascere più forte di prima. Così può sconfiggere The Master, il primo di una serie di grandi villain e il vampiro nel cui albero genealogico ci sono Angel, Darla, Spike e Drusilla. Che famiglia.

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