giovedì 10 dicembre 2015

THE LEFTOVERS: L'ASSENZA E' ANCHE UNA PRESENZA

Se avete visto la prima stagione di The Leftovers — ma spero di no — sapete che il termine biblico "rapimento" o quello un po' più laico "dipartita" descrivono la scomparsa improvvisa e immotivata del 2% della popolazione mondiale. Ecco, sarebbe meglio non saperlo, la cosa migliore sarebbe che il 50% dello show, la prima stagione, scomparisse improvvisamente per una dipartita catodica.



Infatti, la nuova stagione più che una stagione è un'altra era — all'inizio letteralmente — e tutto quello che basta sapere della prima stagione, che iniziava proprio con la dipartita, lo trovate nei nuovi titoli di testa che sono un viaggio anni luce dai titoli liturgici e melodrammatici dell'anno scorso, forse i più belli della storia, o della preistoria, della TV.

Sembrano dire: la morte è una mancanza che ha esattamente la forma della presenza, solo che è fatta di un'altra sostanza. Sembrano anche dire: la morte non oblitera solo il futuro ma anche il passato. Sono titoli avvincenti e al contempo strazianti e, soprattutto, sono meglio di dieci ore di TV (quelle del 2014) ispirate al romanzo omonimo di Tom Perrotta.

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Subito dopo i titoli capitano un paio di cose sconvolgenti: primo, guardare The Leftovers non è più un supplizio; secondo, la storia incomincia, migliaio più migliaio meno, quindicimila anni fa. C'è un terremoto che spazza via una caverna di paleo-indiani e risparmia solo una madre con neonato in arrivo, la rottura delle acque, un parto in solitaria, l'allattamento e tutto il resto, insomma la vita che ha un seguito anche dopo la dipartita del 98% della popolazione locale.

D'un tratto The Leftovers è 2001 A Space Odissey o There Will Be Blood e, nei primi minuti, racconta un mito delle origini... di cosa non è importante ma, se proprio volete, è pieno di simboli che potete caricare di significato — la grotta, le acque, la luna, le uova, il serpente, la colonna di fumo, l'aquila, — però simboli che nell'orizzonte puramente estetico della donna paleolitica hanno solo significati rudimentali: sicurezza, luce, cibo, fuoco — altri uomini? — cura, pericolo... L'ouverture della Traviata con la sua allegrezza tragica e malinconica accompagna queste immagini, ed è interessante, il monolito di 2001 e il monolito, insomma, quello liquefatto di There Will Be Blood spalancano la coscienza, e la violenza, di Moon-Watcher e Plainview, e sono questi due che danno significati ai simboli. In The Leftovers solo noi possiamo, sempre che vogliamo.

Il fatto è questo: non vediamo, che so, l'atto di nascita della religione così come vediamo l'invenzione della leva in 2001 o il parto del capitalismo petrolifero in There Will Be Blood; l'acquit di The Leftovers è un foglio bianco delimitato dalla nascita e dalla morte, e dal fatto che al di là della morte c'è una continuità, che la vita non finisce con la morte e che la forma lasciata dalla mancanza di qualcuno può essere riempita da una nuova presenza, che poi è quasi l'anagramma di speranza. Di sostituzioni come questa, che sarebbe meglio chiamare successioni o invenzioni, ce ne saranno un bel po' nel corso della stagione.

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Ci sono anche un altro paio di cose se non sconvolgenti brillanti. In primo luogo i protagonisti della storia non sono i protagonisti e altri personaggi, i Murphy, hanno preso temporaneamente il loro posto, ed è pressoché impossibile apprezzare fino in fondo l'eleganza della mossa provenendo dall'anno scorso. In secondo luogo, che è la ragione principale della rinascita di The Leftovers, la storia non è più ambientata nel 98% per cento del mondo, dove il lutto è irrimediabile e tutti — un po' fantasiosamente — sono incapaci di elaborarlo ma nel rimanente 2%, a Jarden, una cittadina texana risparmiata dalla dipartita e circondata da un parco che si chiama Miracle. Il problema dei personaggi non è più il lutto, che rimane giustamente sullo sfondo, ma la prevenzione della vita nell'eventualità di un nuovo rapimento.

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Paradossalmente, moltissimi dei pochissimi spettatori di The Leftovers vengono sedotti da tutto ciò che lo show sembra abominare: invece di avere fede e lasciare che la storia salti fuori da sola, analizzano ogni minimo dettaglio — per esempio i libri su Lenin, Stalin e Mandela in camera di John Murphy — in cerca di una spiegazione per un mistero, quello di una storia scritta bene, per il quale non c'è bisogno di nessuna spiegazione tranne l'unica possibile: Dáimon Lindelof è posseduto dall'arcangelo Azrael.

Come gli spettatori di Lost e il tizio della Dharma Initiative che visita Nora, gli spettatori di The Leftovers hanno bisogno di razionalizzare la fede nello show immaginando un'armonia prestabilita che non esiste, una rete di segni al di là dei significati rudimentali delle cose.

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Se nella mia lista del meglio del 2015 ho scritto che lo show più bello dell'anno era Show Me a Hero, dopo aver visto il finale di The Leftovers ho cambiato idea, anche se la conclusione delle vicende di Kevin & Co. mi ha fatto quasi perdere la fede nella storia.

La ragione è semplice: i nove episodi che precedono l'ultimo sono il film più bello dell'anno insieme a Mad Max: Fury Road di George Miller e The Look of Silence di Joshua Oppenheimer. La fine di The Leftovers avrebbe potuto, forse dovuto e forse l'ha fatto, mescolare questi due film.

Nel quarto capitolo di Mad Max, gli uomini hanno un'economia basata ancora sulla leva (del cambio) e sul petrolio. Non hanno imparato nulla dagli effetti del riscaldamento globale, cioè la scomparsa del 98% della natura e del 100% della civiltà, e si lasciano governare da un pronipote di Meg e dei Guilty Remnant, Immortan Joe. La società di Immortan Joe è basata soltanto su principi di inclusione/esclusione: da una parte i guerrieri, i freak e le fotomodelle, dall'altra i profughi climatici. I primi vivono nel giardino dell'Eden, i secondi nel deserto intorno al giardino, entrambi sono afflitti da una pietosa degenerazione genetica.

Nel secondo capitolo della saga indonesiana di Joshua Oppenheimer non c'è più la paradossalità, o meglio assurdismo di The Act of Killing — che raccontava il genocidio di Suharto del 1965-66 (la scomparsa dell'1% della popolazione) dal punto di vista dei carnefici — ma l'intimità della prospettiva dei sopravvissuti racchiusa nel silenzio degli occhi. Non c'è colpa nel silenzio degli occhi, solo nel silenzio della bocca.

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Ciò che non capiscono i Guilty Remnant è la differenza fra colpa e colpevolezza. I Guilty Remnant pensano che gli altri siano colpevoli anche se non si sentono in colpa ma la verità è che sono loro a sentirsi in colpa pur non essendo colpevoli. L'altra verità, omessa dalla bocca e dagli occhi, è che tutti, fuori dalla TV e dentro, siamo colpevoli di molti silenzi di fronte a svariati eccidi in corso.

Come ha intuito Imperator Meg, il silenzio è solo un'altra colpa, dunque parliamoci. E' a questo punto che sorge il dubbio che i Guilty Remnant, piuttosto che una setta di dattilorinchiti siano un gruppo di persone che non hanno nulla da dirsi.

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Come la cittadella di Immortan Joe, Jarden esclude i barbari dal suo Eden. Sono ammesse visite guidate in stile Jurassic Park ma, senza una dispensa papale o tre milioni di dollari, puoi solo vedere e non toccare. Jarden è pornografia religiosa e, nella più vecchia tradizione di pornografia e religione, è una macchina per soldi efficientissima. E' per questo che John Murphy, come Montag, è un pompiere che ama un po' troppo il fuoco? A quanti gradi Farenheit brucia il fanatismo religioso?

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Se dovessi scegliere un episodio dell'anno scorso da salvare, sarebbe Guest (S01E06), in cui Nora, il personaggio più grande fino all'epifania della nuova Meg, si aggira come uno spettro durante la conferenza annuale dell'orwelliano o harrypotteriano "Department of Sudden Departures". Con questo episodio in mente, quello analogo della seconda stagione, Lens (S02E06), brillerebbe il doppio e sarebbe chiaro una volta per tutte che Erika Murphy è la stella gemella di Nora.

Erika ha molto da imparare da Nora, che non ci pensa un secondo a lasciare Kevin quando impazzisce, ma anche Nora avrebbe molto da imparare da Erika: scappare è una soluzione succosa solo quando non hai più nulla da perdere.

Probabilmente, Erika aveva letto il volantino distribuito da un'ente del governo inglese in cui i segnali di radicalizzazione di un adolescente corrispondono a quasi tutti i segnali di una normalissima adolescenza. E' quando il vostro figlio adolescente si comporta come un adulto che dovreste cominciare a preoccuparvi, quando, come Evie, stringe i denti in silenzio invece di criticare i genitori, i media e la politica estera di Jarden.

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The Leftovers è una storia di segregazione. Come quasi tutta la TV più bella del 2015 (Show Me a Hero, Rectify, Mr. Robot) parla di inclusioni e esclusioni. Jarden, per esempio, potrebbe essere il nostro Occidente risparmiato dalla ennesima dipartita di una percentuale di popolazione che varia a seconda dello scenario geopolitico che scegliete, e l'invasione terroristica dei Guilty Remnant, cellula Meg, potrebbe essere come gli ultimi attentati di Parigi, un esempio di quello che quotidianamente accade là fuori*.

Perché il terrorismo possa essere deve colpirti a casa, nel luogo che, da tempi anche più remoti di quelli della paleo-indiana, è un segnale di sicurezza. Il terrorismo è sempre domestico, anche quando lo pratica qualcuno che viene da fuori, ma lo è a maggior ragione quando lo mette in pratica chi, come Evie, viveva segregato insieme a te.

Alla fine della stagione (che sembra anche un'affrettato finale di serie**) il cerchio si chiude e tutti, anche Kevin che torna dal mondo dei morti dopo una scena bella ma non abbastanza assurdista, tutti entrano nella caverna di Jarden un attimo prima che l'ingresso crolli, purtroppo senza quella scena in stile Mad Max che ci voleva e manca, forse, per limiti di budget. L'ultimissima scena, come il finale di Lost, ci dice forse che l'umanità in noi potrebbe essere una mancanza che ha esattamente la forma della presenza.

* Sia chiaro, The Leftovers non è una metafora di un qualche evento storico, ma solo, e solo in parte, un'estensione concettuale del principio di inclusione/esclusione che pervade il mondo attuale. Come le prime stagioni di Homeland, è uno show alla deriva che ci invita, lasciandoci lo spazio, a interpretare il mondo contemporaneo.

** Nel frattempo, lo show è stato rinnovato per una terza, ultima, stagione.

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