mercoledì 28 maggio 2014

MAD MEN: WATERLOO

Questa recensione è apparsa su Serialmente il 28 Maggio 2014.

Non è la morte che spaventa tutti ma il suicidio, un trucchetto messo in pratica da Lane Pryce qualche stagione fa e da Don l’anno scorso, anche se solo in termini lavorativi.

Ted Chaough ci va vicino in questo episodio, gettando il suo areoplanino malinconico fuori dal quadro della realtà e da tutti i significanti che definiscono la scena del business pubblicitario, e la cosa manda tutti fuori di testa. Perché? La risposta è semplice: il suicidio, soprattutto nelle sue incarnazioni simboliche, è la nemesi del profitto. E poiché il capitalismo è un sistema economico che ha trovato la formula per prosperare cambiando in peggio (l’eufemismo che usiamo per indicare chi persevera nell’essere se stesso), non può che accogliere con un minimo di trepidazione chi vuol morire per rinascere a nuova vita.

Waterloo incomincia con un’immagine dell’Apollo 11 stile Deep Throat e Bert Cooper su sfondo Jackson Pollock. La felicità di Bert di fronte all’erezione scientifica dell’umanità potrebbe essere un’allusione ironica alla sua castrazione, mentre il Pollock alle spalle potrebbe suggerire il caos della prossima mezza stagione o la natura frattale di Mad Men o il fatto che l’alcolismo di Don è il vero tema dello show: in fondo Pollock, come Buzz Aldrin, era un alcolista, e morì ubriaco in un incidente stradale.

Sull’ultima cosa non metterei la mano sul fuoco, ma sul fatto che si parli di sesso ne sono abbastanza sicuro. Lo stacco su Ted che fa penzolare il suo “Cessna” è chiaro: virilità e business sono inscindibili in Mad Men e Ted ha lasciato entrambi a New York. Sesso, appunto, per non parlare del seguente spot Coca Cola con ragazzini muscolosi e operai sudati: nei primi cinque minuti c’è tutto l’immaginario sessuale maschile e femminile o, almeno, l’immaginario come lo intende la pubblicità.

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Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare ogni tanto: la pubblicità non parla solo di sesso e il pitch di Peggy per Burger Chef – che è praticamente il concept di uno show chiamato Cheers – ci ricorda che le cose vengono caricate di senso non solo erotizzandole ma anche rendendole noiose come una famiglia.

Così, se nel precedente episodio, The Strategy, tutti rigettavano la famiglia in cerca del vero amore, in questo tutti rigettano le avances di futuri e passati incerti in cerca della vera famiglia. Come lascia intendere Bert, vera famiglia è quella che condivide la stessa allucinazione.

Si tratta, forse, dell’affermazione più chiara di Mad Men da sette anni a questa parte, l’unico indizio di cosa potrebbe accadere negli ultimi sette episodi. Don, Peggy, Pete e naturalmente Roger, così come il defunto Bert, e Ted e Joan e, con un certo opportunismo, Jim alla fine firmano per lo stesso team e condividono la stessa visione, quella di una sconfitta che, se volete, è una vittoria perché rappresenta il momento massimo di unità dai tempi degli analoghi eventi di Shut the Door, Have a Seat. E’ una storia che si ripete, dunque, come molte cose si ripetono continuamente in Mad Men (Carousel/Burger Chef, l’infarto di Roger/la morte di Bert, ecc.) con diversi colori e tonalità, ma che si ripete, per una volta, attraverso un suicidio, il sapersi morire e il lasciarsi andare.

Tutti si lasciano andare e tutti lasciano andare Harry, che poi è l’unico che non vuole mollare niente. E così, tutti gli ostacoli che rallentavano l’armonia familiare cadono nella Waterloo della Sterling, Cooper & Whatever, la battaglia nella quale McCann Erickson si porta a casa una vittoria che costa 65 milioni di dollari, circa 420 del giorno d’oggi.

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Che poi — vogliamo dirlo? — sono niente rispetto ai 25 miliardi di dollari (165 odierni) spesi per lo sbarco sulla Luna. “The best things in life are free”, canta Bert nel sublime finale, e la cosa divertente è che in quel momento in cui Neil Armstrong ha messo piede sulla superficie Luna e l’ha fatta diventare di tutti, è lì che ci dovrebbe venire in mente che anche le cose gratis hanno un costo: la televisione, per esempio. E se le cose gratis hanno un costo – la pubblicità, per esempio – qual è il prezzo che realmente paghiamo quando le riceviamo?

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Con Waterloo, Mad Men sembra chiudere un lungo ciclo di corruzioni e concussioni incardinate sulla figura di Don Draper, la gallina dalle uova d’oro allevata a terra da Bert Cooper e Roger Sterling. Che le migliori cose nella vita siano gratis – la morte, forse – è una constatazione vera ma ironica perché per conquistare, che so, l’amore di una figlia o il rispetto dei colleghi, come abbiamo visto bisogna farsi un gran mazzo: la gratuità è sempre il culmine del lavoro più difficile, cioè vivere, ovvero accettare il cambiamento, perseverare non nell’essere ma nel diventare se stessi.

E’ questo che intende Don quando dice a Ted che vuole fare solo il creativo? Può darsi, ma la storia non è ancora finita e, come sappiamo, Mad Men è uno show sottile nel costruire momenti dinamici in cui la speranza e l’ottimismo afferrano i personaggi per poi lasciarli improvvisamente andare. 

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La defenestrazione, come dicevo parlando di Ted all’inizio, è un’uscita dal quadro della realtà, l’attraversamento della cornice che racchiude la struttura di significanti che ci definiscono all’interno del mondo. E’ un suicidio radicale e romantico che, per esempio, si staglia contro l’impiccagione che disperatamente, pateticamente ci lascia appesi, e dunque ancora aggrappati al mondo: una morte a metà. Simbolicamente, la defenestrazione è come si dovrebbe morire per poter rinascere, per poter cambiare e diventare.

Se il salto nel vuoto di Don, verso la Luna, sia solo l’istante poco prima della caduta o il piccolo passo avanti di un uomo e il gigantesco salto di uno show chiamato Mad Men è l’unica domanda che adesso ci dovremmo fare, e dunque quella che dovremmo lasciare per prima. D’altra parte, cosa ci costa: le migliori domande sono gratis.

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