martedì 24 dicembre 2013

REAL HUMANS E LA ZONA PERTURBANTE

Questo articolo è originariamente apparso su Serialmente il 24 Dicembre 2013.

The uncanny valley, la “zona perturbante” (o sinistra), è un concetto elaborato nel 1970 dallo studioso giapponese di robotica Masahiro Mori, secondo il quale più un robot si avvicina all’apparenza umana, più il suo aspetto può risultare inquietante. La copia perfetta di un essere umano sarebbe naturalmente indistinguibile dall’umano e dunque del tutto familiare, mentre in una copia, per così dire, quasi perfetta si noterebbe anche il più piccolo difetto e, in questo caso, il suo aspetto sarebbe assai meno familiare, inquietante, perturbante appunto. In sostanza, un braccio meccanico che avvita bulloni sarebbe meno inquietante di un robot antropomorfico iperrealista che mancasse di “quel qualcosa” che magari non sapremmo spiegarci, ma…

Questo discorso può valere, per esempio, anche per la pittura e per il ritratto figurativi, nei quali l’iperrealismo non coincide mai con il realismo assoluto dell’immagine né (come farebbe pensare il prefisso “iper”) eccede quel realismo. È iperrealista la figura che riconosciamo come una copia perfetta dell’originale ma alla quale manca di essere proprio come l’originale: fa di tutto, troppo, per essere simile all’originale e il suo fallimento (che è poi un successo) deriva da questa apparente eccedenza che in realtà è una mancanza, un essere quasi ma non proprio. Di fronte al suo ritratto dipinto da Velásquez si dice che Innocenzo X esclamò “è troppo vero!”, e di quell’eccesso di verità (al quale mancava qualcosa per essere proprio vero) sappiamo cosa ne fece Bacon quando decise di ridipingerlo: lo trasformò in una perturbazione, mostrò il rimosso.

Il grafico della “zona perturbante” di Mori (qui sotto) schematizza il concetto che ho appena espresso, sia rispetto alle figure statiche sia rispetto a quelle in movimento. L’essere umano sano e in movimento è il culmine della familiarità mentre l’essere umano morto, il cadavere, si trova nella zona perturbante: quando un uomo muore, dice Masahiro Mori, scivola dal vertice della linea tratteggiata (il familiare dinamico) alla base della linea continua (il perturbante statico). Culmine del perturbante è il cadavere in movimento, cioè il morto vivente, lo zombie.




Anche se ha ispirato una vasta letteratura, la “zona perturbante” di Mori (a sua volta eleborata a partire da Jentsch e Freud) non è esattamente una teoria scientifica, quanto piuttosto una geniale intuizione che trova conforto soprattutto nella letteratura, nel cinema e nella televisione. Le creature della fantascienza e dell’orrore provengono da quella zona perché hanno sempre qualcosa di umano (o naturale) ma mai esattamente umano o naturale, sono creature sfuggenti, inquietanti, come l’alieno di Alien, mostro umanoide-insettoide che, fra l’altro, viene sconfitto da Ripley grazie a una protesi antropomorfica meccanica che, come i robot delle catene di montaggio, è assai meno perturbante dell’alieno, anzi persino familiare. Così, l’intuizione di Mori può rendere conto del fatto che, per esempio, ci sentiamo molto più a nostro agio di fronte a uno spettacolo di burattini o marionette o di fronte al robot Asimo che di fronte a un manichino animato, e cioè che le metafore o analogie di umanità sono molto meno inquietanti delle imitazioni di umanità. (Se è vero che lo zombie è il culmine dell’inquietudine, l’intuizione di Mori rende anche conto del successo di uno show come The Walking Dead che rappresenta una sorta di lotta apocalittica contro il perturbante.)

È forse per questo che mentre guardiamo l’ultima versione di Battlestar Galactica non ci sentiamo mai inquieti di fronte ai Cylon: i modelli meccanici, pur letali, ritengono ancora un certo grado di familiarità, mentre quelli “in pelle” sono identici a noi e solo quando compaiono in serie, come sosia o cloni, possono avere un certo effetto perturbante. Ponendosi al di fuori della zona perturbante, BSG ha affrontato liminarmente il tema del rapporto fra l’uomo e le macchine create a sua immagine e somiglianza, focalizzando il suo interesse su altri temi più o meno correlati all’argomento (il problema della creazione e della paternità, il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale, e poi il genocidio, la sopravvivenza, il concentramento, la circolarità della storia, ecc.).

Lo straordinario show svedese Real Humans (Äkta människor, scritto da Lars Lundström) mette in scena un mondo futuristico nel quale robot domestici del tutto simili agli uomini (chiamati “hubot”) hanno appena raggiunto la singolarità. Non ci sono scenari à la Blade Runner (Scott) o AI (Spielberg), anche se certi riverberi di questi e altri film sull’argomento arrivano fin qui, non ci sono allucinazioni utopiche o distopiche, c’è solo un mondo molto simile a quello attuale nel quale gli esseri umani hanno a disposizione un elettrodomestico e/o lavoratore universale e intelligente. Il fatto che quell’elettrodomestico abbia fattezze quasi umane è ciò che fin dall’inizio attira noi e i personaggi dello show nella zona perturbante: a differenza di BSG o dei due film sopra citati, i robot di Real Humans sono in qualche modo iperrealisti, fanno troppo, ce la mettono tutta per essere umani, o meglio, sono progettati e programmati per mettercela tutta ma in ciascuno di essi, anche in quelli che hanno il dono della singolarità, c’è qualcosa che non torna, nei movimenti, in quello che dicono, in come lo dicono, nei comportamenti, persino nella staticità, anzi soprattutto nella staticità, in quei momenti in cui stanno semplicemente seduti a ricaricarsi, attaccati con la spina a una presa di corrente.

Senza alcun bisogno di strafare e senza ricorrere a soluzioni narrative artificialmente spettacolari, Real Humans descrive l’irruzione del perturbante nella familiariatà delle nostre vite, un perturbante che, non a caso, manifesta proprio quelle caratteristiche che Jentsch e poi Freud avevano teorizzato. Sebbene il tessuto dello show sia cucito intorno a un lungo arco (relativo all’algoritmo della singolarità e all’imminente conflitto fra uomini e macchine) la bellezza e la poesia di Real Humans si trovano infatti nelle relazioni quotidiane fra personaggi umani e hubot (fra l’altro, graziate più di una volta dall’intelligenza narrativa del non sequitur). In questo senso, il termine “transhuman”, transumano, che viene utilizzato nello show per indicare le relazioni sessuali fra umani e hubot, dovrebbe essere esteso a qualsiasi tipo di relazione fra essi perché l’investimento affettivo umano nei confronti degli hubot è incessantemente in gioco in ogni rapporto. E’ così che le situazioni più prosaiche trascendono nel poetico e noi possiamo assistere allo spettacolo di un’umanità perturbata che si interroga sulla propria umanità e, in fondo, trattando le macchine umanamente, non fa che umanizzarle o, addirittura, renderle umane.

Probabilmente è qui il fascino più grande di Real Humans, nel mostrarci esseri umani perturbati che non agiscono più con la familiariatà cui siamo abituati perché smarriti di fronte a esseri che, oltre all’intelligenza, potrebbero anche provare i nostri stessi sentimenti; umani irriconoscibili dunque e, quanto gli hubot, per noi spettatori altrettanto perturbanti.

Ma non voglio dire troppo, e mi limiterò ad aggiungere questo: sappiamo che alcuni degli hubot possono davvero provare sentimenti, eppure anche quelli che non posseggono l’algoritmo della singolarità affettiva sembrano in grado di amare e patire: è un’illusione, una proiezione, un riflesso del nostro narcisismo o è tutto vero? Real Humans non risponde a queste domande ma ci getta in un mondo transumano in cui sia l’affetto per gli hubot sia la violenza o i ripetuti atti di umiliazione nei confronti di questi (che mentre li subiscono ci guardano) rivelano, come d’improvviso, la natura di molte delle nostre relazioni con gli altri (e con l’Altro). E, più di ogni cosa, ci mette di fronte all’orrore della rimozione dell’umano, alla perturbante croce disegnata sull’uomo e rappresentata dagli hubot. Nella visione periferica di un mondo transumano c’è l’orrore di una mortalità assoluta: i nostri Doppelgänger immortali.

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