mercoledì 18 dicembre 2013

COME HOMELAND HA PERSO SE STESSO

Per due stagioni — o almeno per una stagione e mezzo — questo show americano scritto dagli autori di 24 e vagamente ispirato a una serie televisiva israeliana, è riuscito nell'impossibile: travalicare l'assurdità delle sue premesse, dei personaggi e di un intreccio erratico riuscendo in qualche modo a funzionare.

Situazionista potrebbe essere chiamato il suo stile narrativo, perché non c'è nessuna descrizione o interpretazione della realtà in Homeland, non ci sono fatti o documenti, e si potrebbe arrivare a dire che non c'è neppure logica. Gli episodi rappresentano una serie di eventi, di situazioni appunto, sono una deriva, una pratica di flusso, un esercizio di smarrimento.

Tramite questo esercizio, Homeland ha attraversato molte cose, si è lasciato andare a molte cose, raccontandosi, deducendosi, evincendosi e, soprattutto, abducendosi. Non ha fondato alcuna teoria, perché questo sarebbe stato impossibile data la sua natura antitetica a ogni progettualità e fattualità eppure, andando alla deriva, ha attraversato molte teorie e fatti. Senza essere allegoria, metafora o simbolo, ha fatto riemergere per esempio l'11 Settembre, ha navigato errando (e molti sono gli "errori" di Homeland) sull'orrore dell'ultimo esterno, quel foglio bianco firmato in calce da Bin Laden sul quale manca la descrizione di una storia ufficiale, o almeno pubblica, delle Twin Towers: com'è successo? Come si è arrivati a quello?

Homeland non lo ha spiegato, o meglio, lo ha non-spiegato, non-raccontato, raccontando un altro attentato spettacolare e la cattura di un terrorista immaginario, Abu Nazir, un profeta armato di odio viscerale, fortuna e di un'arma ultramoderna, l'homo sacer Brody.

Più simile a un'opera d'arte in grado di aprire orizzonti di senso nell'occhio dello spettatore, la serie TV Homeland ha così toccato alcuni aspetti del mondo contemporaneo lasciandoci immagini fantasma con le quali giocare. In primo luogo quella di Brody (Damian Lewis), marine che ritorna negli Stati Uniti dopo otto anni di prigionia in Medio Oriente.

Fin dal primo episodio dello show sappiamo che un soldato americano potrebbe essere passato al nemico e sospettiamo che potrebbe essere Brody (finché non scopriamo che è proprio Brody). Immagine delle contemporanee asimmetrie interiori e della sacralità del combattente democratico, il sopravvissuto Brody è la nostra porta d'ingresso in una dimensione delirante in cui l'amico e il nemico coincidono in un punto di vista assoluto che nessuno di noi può veramente mai abbracciare, perché Brody non è né un traditore né un convertito come, per esempio, il personaggio di Kevin Kostner in Balla coi lupi, ma un'arma intelligente, un drone di carne a disposizione dei protagonisti di una guerra di nervi combattuta con l'assicurazione dell'irresponsabilità divina (sia questa quella del dio Democrazia o di Allah). Scopriamo così che nel sacralizzato Brody la sacralità è in realtà sacertà, che Brody a un certo punto travalica sia l'ambito giuridico sia quello religioso della comunità, è un estraneo alla comunità, un bersaglio pubblico che può essere ucciso da chiunque come qualsiasi terrorista o come un terrorista qualsiasi o, più modernamente, può essere programmato e riprogrammato a piacimento.

Finché Brody non ha cominciato a sentire di nuovo pudore e colpa, finché non ha dato di nuovo segni di umanità, ha potuto incarnare lo scenario contemporaneo della ri-programmazione o, se preferite, quello del conflitto odierno fra geografia e politica del corpo. Se ogni mondo non è altro che la rappresentazione della mappa che lo rappresenta, allora le cartografie del corpo e della mente non possono che oscillare: non esiste (può esistere?) una cartina politica del corpo da affiancare alla cartina geografica. Esistono scritture psicanalitiche, confessioni, procedimenti analogici che permettono di sovrapporre gli schizzi della psiche al territorio del corpo, ma la mappatura del corpo rimane prevalentemente una pratica psico-somatica (analogica, appunto) e quasi mai organica. Tuttavia, ciò che vediamo accadere a Brody e alla sua controparte Carrie (Claire Danes, l'agente bipolare della CIA che, fin dall'inizio della serie, è sicura della colpevolezza di Brody), si avvicina molto all'orizzonte organico, perché Brody e Carrie sono cavie nel laboratorio biopolitico contemporaneo e la loro storia (anche la loro storia d'amore) pare scritta da William Sargant e George Orwell: una storia di sperimentazioni psicobelliche finalizzate più che al controllo della mente, alla sua conquista (solo chi è terrorizzato può combattere il terrore).

E' coerente allora che entrambi i personaggi operino in uno stato di continuo delirio, perché entrambi sono "fuori dal solco", anche se sarebbe meglio dire che sono in un altro solco, in un'altra rete neurale, in un'altra programmazione. Per questo non c'è niente di strano nella maniera in cui agiscono: se vogliamo ridurre per un attimo il comportamento umano a una serie di inibizioni/disinibizioni, potremmo dire che Carrie e Brody sono soltanto diversamente inibiti/disinibiti. E' vero che il delirio di Carrie è patologico mentre quello di Brody è il risultato di successivi lavaggi del cervello, ma questo non fa altro che confermare lo stato di eccezione in cui entrambi i personaggi agiscono: entrambi sono armi intelligenti. In altre parole, nel momento in cui il terrore diventa il fine ideologico della guerra, ti devi dotare di adeguate armi (deliranti) per aggredire e difenderti e, forse, l'intuizione più profonda di Homeland è che quelle armi (alla stregua di PRISM o dei droni) sono essenzialmente incontrollabili, funzionano al di là delle intenzioni per le quali sono state create e non smettono di funzionare finché non le spegni, e forse neanche a quel punto.

Accanto a questo aspetto che potremmo chiamare una psicogeopolitica del mondo contemporaneo, Homeland ha mostrato la storia di un attentato (nessun attentato può non essere più quello delle Twin Towers) come la storia di una catena di contingenze o come una convergenza di pulsioni geopolitiche (incarnate nei vari personaggi). Come se l'inspiegabile si potesse spiegare soltanto con l'inspiegabile, Homeland ha scartato tutte le spiegazioni e, usando il "buco narrativo" come parte integrante della storia (d'altra parte la Storia è di per sé piena di "buchi narrativi"), ci ha lasciati in balia di un intreccio spesso assurdo ma mai inconcepibile o paranoico. E' a questo punto, dopo l'esplosione a Langley e il funerale di Abu Nazir (reminiscenza allucinatoria di un funerale, quello di Bin Laden, cui nessuno ha potuto assistere), che lo show si è perso nel suo smarrimento.

All'inizio della terza stagione, Brody è fuori di scena. Lo ritroviamo a Caracas, ferito e prigioniero per l'ennesima volta. E' comprensibile che le logiche economiche di un network influenzino la creatività degli autori ma, probabilmente, mai ci fu un conflitto più aspro fra logiche commerciali e narrative: non puoi tenere in vita in eterno l'uomo che tutti possono uccidere. Per quanto nell'ultimo episodio della stagione Brody si guadagni una morte spettacolare, questa è il risultato del capitale narrativo delle prime due stagioni e non della storia raccontata nella terza, una storia che continua a raccontare la sacertà di Brody (e la follia sacra di Carrie) ma in un contesto improvvisamente pre-contemporaneo. E' forse qui che si rompe l'incantesimo della deriva di Homeland, nel momento in cui (e già i segni si erano visti a metà della seconda stagione) si trasforma in una spy story classica, nel momento in cui diventa I tre giorni del Condor in versione un po' più contorta e grottesca.

Le rivelazioni di Snowden su PRISM e GCHQ hanno proiettato il mondo in una prospettiva, quella onniprospettica del panopticon, che tutti avevamo preso in considerazione ma di cui non immaginavamo l'attuale estensione. E se è certamente vero quello che ha scritto David Simon (l'autore di The Wire) proprio su PRISM, notando che puoi sorvegliare anche tutto il mondo ma se poi non hai una manodopera proporzionata, cioè sufficienti uomini sul campo, non sarai mai in grado di colmare il gap fra previsione del crimine e crimine, è anche vero che i moventi e le conseguenze della sorveglianza travalicano l'intento di proteggerci. (Da cosa poi? E fino a che punto?) Come proprio The Wire ci ha mostrato parlando di intercettazioni, chi ha intenzione di commettere un crimine troverà sempre il modo di eludere anche la sorveglianza elettronica più raffinata, a meno che la sorveglianza elettronica non sia coadiuvata da quella vecchio stile (e anche in questo caso il successo è dubbio). Perciò ha senso che Homeland insista, come fa per tutta la stagione, sull'importanza del fattore umano nella cosiddetta guerra al terrorismo. Ciò che non ha senso è che lo faccia descrivendo un mondo pre-Snowden, soprattutto quando altri show (l'eccellente Person of Interest di proposito e The Good Wife per vocazione) sanno aprirsi all'invadenza del panopticon e a tutte le problematiche (etiche, legali, filosofiche) che ne conseguono. Il mondo della terza stagione di Homeland sembra quello del dopoguerra, così come il piano di Saul (Mandy Patinkin, il direttore temporaneo della CIA) per influenzare le politiche iraniane, al di là delle evidenti assurdità (questa volta concrete), sembra uno di quei plot fumettistici da Guerra Fredda che si vedono nei film di James Bond. Ci sono certamente momenti spettacolari e lampi di grandezza narrativa in Homeland Parte Terza, e viene introdotto il bel personaggio di Javadi (Shaun Toub, il vicedirettore dell'Intelligence iraniana), ma la magia è svanita.

Il momento in cui Homeland si è perso è quello in cui è uscito dal solco del suo delirio e ha preso una rotta definita. Solo uno show alla deriva poteva descrivere un mondo alla deriva.

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