martedì 1 ottobre 2013

BREAKING BAD: IL BENE CHE VOLLE FARSI MALE

Se, come dice il Kirillov di Dostojevskij, Dio non è altro che il nome che l’uomo ha dato al dolore e alla sofferenza, in un mondo senza Dio significa che non esistono più dolore e sofferenza, che il Male non è neppure, al limite, neutrale ma completamente neutralizzato.

Le prime tre stagioni dei Soprano e The Wire descrivono un mondo così, un mondo in cui l’illusione della bellezza inonda tutto. L’ingegno e le passioni umane sono al di là del bene e del male e non c’è azione che sia in fondo reprensibile perché tutto è bene, perché, per usare proprio le parole di Kirillov, “chi insegnerà che tutti sono buoni, colui compirà il mondo”.

Lo spettatore che si scandalizza di fronte alle azioni malvagie dei protagonisti di questi show, ivi compreso Breaking Bad, è solo bigotto o ipocrita. Il godimento del Male, e per il male che viene fatto, è probabilmente l’unico e irrinunciabile fattore di queste storie.

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Che l’America facendo questa televisione non faccia altro che descrivere se stessa non è in discussione. Nei Soprano, in The Wire e Breaking Bad ci sono forma e stile, differenti gradi di metafora, analogia e allegoria ma nessuno dei tre manca il punto, cioè di descrivere il nichilismo dei moderni Stati Uniti d’America, la vitalità vandalica, l’erotismo disfattista, la vertigine del godimento senza freni.

The Sopranos estroflette quel nulla nevrotico che caratterizza l’anonimità della vita mostrando che dentro a Tony, una delle incarnazioni del male, non c’è nulla di diverso da ciò che c’è anche in noi: stress, ansie, vanità, recriminazione, risentimento, nomi e sogni naturalmente, e quella fitta nebbia che circonda la nostra provenienza e che cerchiamo disperatamente di attraversare. Il male non è diverso da noi, solo un’occasione mancata o perduta.

The Wire descrive il male nelle sue declinazioni istituzionali, mostrando un mondo che rivolge la pulsione di morte contro se stesso e così si consuma. Per cattiva coscienza? Può darsi. O forse per aver superato qualsiasi coscienza, anche la propria. Il problema è che non c’è una coscienza collettiva, men che meno una “cattiva coscienza” collettiva. E’ dalla somma delle operazioni individuali, diversamente sociopatiche, che risulta la collettività autodistruttiva di Baltimora. Male e bene sono i primi ballerini in un’opera tragica musicata dal nichilismo. Comprendono la sfinita bellezza dei loro movimenti e sanno benissimo che tutto dipende da quella bellezza imprigionata nelle partiture artefatte dell’immaginario americano, l’Old West, la Guerra di Secessione, gli anni ‘20 e il proibizionismo, la Seconda Guerra Mondiale, il Vietnam… e tutto il cinema e la letteratura che li hanno rinfocolati.

In questo senso, la cosa più tragica di The Wire è l’impossibilità di interrompere la finzione, e la cosa vale per tutti i personaggi, McNulty, Stringer Bell, Avon Barksdale, D’angelo, Sobotka, Omar, Brother Mouzone, Freamon, Mario, Carcetti e così via. Essendo i personaggi più reali che abbiano mai calcato la televisione sono anche i personaggi nei quali la finzione è più profonda. E solo Bubbles, fra questi, ha qualcosa di vero, cioè qualcosa di illusorio, la speranza.

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Ma come si è arrivati a questo? Come si è passati dal male naturale a quello morale? E perché il bene volle farsi male, e non un male minore ma un male immensamente più grande del male?

Se volete leggere Breaking Bad come una “genealogia del male” è forse qui che le risposte vanno cercate, nel terzo capitolo del Male. Tuttavia, nessuna genealogia, per quanto raffinata e precisa, può cogliere il gesto originario da cui tutto si dipana. Quand’è che Mr. White rompe la membrana fra bene e male? Quando scopre di avere il cancro? Quando ricatta per la prima volta Jesse per cucinare crystal meth? Quando mente a Skyler in mezzo al deserto? Quando uccide per la prima volta? O, molto prima, quando si autoesclude dalla Grey Matter? E’ mai possibile cogliere quell’attimo? E dire, a onor della storia, fermati, sei così bello?

Probabilmente, no. E la confessione di Walt a Skyler, che è anche la più grande verità che Walt abbia mai pronunciato e la più grande bugia, dice proprio questo, che l’inizio del male è inafferrabile: quando incomincia un cancro?

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"All the things that I did, you need to understand…" Se devo sentire un’altra volta la balla della famiglia. Dimmi una bugia più vera Walt… "I did it for me. I liked it…"

Non può dire, Walt, che l’ha fatto per raggiungere il godimento assoluto della distruzione, quella mescola di eccitazione e orrore che giustifica ogni trasgressione dell’ordine simbolico della civiltà, compresa quella simbolicamente più rilevante in occidente, la trasgressione dell’incolumità di un bambino. Deve dire che gli è piaciuto essere Heisenberg perché è tornato nell’ordine simbolico del matrimonio e sta contrattando con Skyler una sorta di perdono, non per quello che ha fatto ma per quello che è, un uomo. Non può dire di più perché quel “di più” distruggerebbe anche Skyler. E non può dire di più perché neanche lui sa quando è incominciato il male, perché forse il male è sempre stato lì, come una cellula bramosa in attesa di un agente mutageno.

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Per quanto Ozymandias sia un episodio stratosferico, è Granite State l’episodo chiave per comprendere la trasformazione finale di Mr. White. E’ durante il periodo di riflessione forzata nel casotto in New Hampshire che finalmente Mr. White diventa Heisenberg. Lo fa in realtà lasciando proprio Heisenberg, abbandonando quell’essere reattivo, impaurito e paranoico che è stato il suo alter ego, un mito costruito, come ben sappiamo, a dispetto della cialtroneria (per quanto geniale cialtroneria) di Walt. E’ nel momento in cui non ha più bisogno di una maschera che può fare quello che ha sempre desiderato, salvare la famiglia, vendicarsi di Gretchen e Elliot Schwarz e, a latere, salvare pure Jesse. Tuttavia non c’è nulla di nobile in questo, non perché il processo di congruenza fra la personalità di Walt e il mito di Heisenberg sia, di nuovo, un processo sanguinoso, ma perché è soltanto un’altra messa in scena: è il male che vuole farsi bene, cioè quello che ha sempre preteso di essere.

Evidentemente non può. La droga del godimento è inarrestabile, infinibile: c’è nulla di più bello che distruggere gli altri e distruggere se stessi?

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Questa bellezza è ignota sia alla terrificata Lydia sia allo psicopatico Todd sia ai nazisti di Uncle Jack. Nessuno di loro vede il bello della distruzione, nessuno di loro vede l’architettura, il disegno unitario e può sopportare la responsabilità collettiva del male come Gus e poi Walt. Lydia, Todd e Uncle Jack sono parassiti del male che, per estendere una riflessione di Claudio Magistrelli su Serialmente, non hanno alcun potere ma si limitano a occupare un vuoto di potere. Non ci sono né ordine né eleganza né armonia nelle loro azioni: sono il male che non può che essere banale.

Come ben si vede durante il “recap” di Todd della grande rapina al treno in un episodio precedente, non è che Todd o Uncle Jack non comprendano la poetica del male (qualcosa che Gus, Walt o Gale avevano nel loro DNA), ma non sono in grado di metterla in pratica, sono semplicemente alieni, disumani: perché il sonno del male genera mostri più grandi del sonno della ragione.

Così, è quasi logico che Walt, improvvisamente ridotto a male minore di fronte al disumano, di fronte a un male che è maggiore solo per quantità e non per qualità, senta il bisogno di abbandonare il suo ritiro e chiudere i conti: forse non è solo vendetta che cerca ma anche giustizia poetica. E per ottenere giustizia non ha più bisogno di strumentalizzare qualcuno come Jesse o di strumenti che gli consentano di mantenere la distanza dal male: anche se poi è uno di quegli strumenti a compiere l’opera, Walt è finalmente disponibile al faccia a faccia, a rischiare la vita, a mescolarsi con l’orrore a costo di realizzare il desiderio di autodistruzione.

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Walter White faceva bene il suo lavoro, era eccellente in ciò che faceva ma, soprattutto, era eccellente nel fare il male. La sua storia arriva alla fine delle storie sul male, cioè della cosiddetta golden age televisiva che, una volta, Darren Franich ha giustamente definito un costrutto del narcisismo nostalgico generazionale. Forse non c’è alcuna golden age a pensarci bene ma, senza dubbio, c’è un percorso dai Soprano a Breaking Bad, ci sono un’alba, uno zenith e un tramonto. E, poiché è al tramonto, come dice Nietzsche, che le radici si vedono meglio, è con Breaking Bad, il dramma crepuscolare che cala su quel sentiero, che il male cerca di raccontare la sua origine.

Se nell’euripedea saga dei Soprano il male rifletteva su se stesso comprendendo che non esistono cattive coscienze ma solo coscienze più o meno efficienti, e nell’eschileo The Wire il male si interrogava proprio sulla questione dell’efficienza, più che altro agendo in maniera efficiente e senza pensarci troppo, nel sofocleo Breaking Bad il male si chiede la sua provenienza. Nei Soprano la malattia, il cancro che flagella innumerevoli personaggi, è una metafora del male, in The Wire la malattia, la dissoluzione della città, è un’analogia del male, in Breaking Bad la malattia è un frattale del male. Da dove proviene il cancro? Da dove proviene il male? Conosciamo più o meno le cause e i meccanismi del cancro e conosciamo più o meno le cause e i meccanismi del male, ma la causa prima, la ratio del cancro e del male non possono che sfuggirci. Per quanto torniamo sui nostri passi, non potremo mai cogliere l’attimo del sorriso compiaciuto di Dorian Gray che, successivamente, vedremo sul Ritratto, il primo orrore di Kurtz, il momento in cui Kathy diventa per Heathcliff un fantasma (anche a se stessa), quello in cui, prima ancora di essere liberato, Hyde si origina in Jeckyll o quello in cui a Walt comincia a piacere quello che fa.

I liked it, questo possiamo dire. E se le cellule tumorali potessero parlare dopo aver mangiato e consumato il nostro corpo, non direbbero forse lo stesso?

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