venerdì 1 marzo 2013

ENTROPIA TELEVISIVA E SPETTATORI GASSOSI

Pubblicato originariamente sul numero 20 di  Players Magazine (Marzo 2013).

Chiedere a una corporation di andare contro la propria natura è come chiederlo a un velociraptor. È la ragione per cui non ha alcun senso lamentarsi se il vostro show preferito è stato semplificato, appiattito, spostato in un nuovo slot, ha perduto lo showrunner, è stato cancellato, ecc. Strappatevi pure i capelli, disperatevi, urlate pure contro le insensibili dirigenze dei grandi network, scrivete e-mail, partecipate alle campagne per resuscitare questo o quell’altro show, tanto è inutile perché, come si suol dire, il business è business. Ma che tipo di business? Perché gli show televisivi dipendono così tanto dai rating? Perché la TV si fa di settimana in settimana e non investe sul futuro?

Le corporation televisive sono entità asincrone per le quali l’epicentro del business sono progetti specifici a breve termine (le stagioni televisive), finalizzati a produrre il massimo profitto (ricavi pubblicitari) nel minimo tempo (ogni settimana), indipendentemente dalle grandi strategie di business developement che definiscono ogni specifico network (in televisione la tattica prevale sempre sulla strategia). In altre parole, a prescindere dalle potenzialità strategiche di un particolare show (la sua resa nel lungo termine), ciò che conta per un network è solo l’immediata resa tattica (la sua resa oggi).

Questo modello di business può sembrare irragionevole perché, come abbiamo imparato un po’ di tempo fa da Aristotele, un sacrificio adesso in vista del bene futuro è senza dubbio una scelta più razionale di qualsiasi gratificazione immediata (tanto che tutti sappiamo benissimo che, per quanto domani potrebbe non esserci nessuna gallina, l’impulso contadino di accettare l’uovo oggi va contro qualsiasi ratio capitalistica). Tuttavia è un modello che funziona. Anzi, a guardar bene le cose, è un modello di business assai più razionale di uno che, per esempio, tenesse in considerazione la qualità intrinseca di un determinato prodotto (che so, l’eccellente Firefly di Joss Whedon che ha avuto vita davvero breve qualche anno fa) puntando sul futuro invece che sul presente.

In sostanza, quello che fa la TV è accumulare uova e fregarsene delle galline. In primo luogo perché ogni ciclo di un particolare network è macromediaticamente in un rapporto di interdipendenza con i cicli degli altri network che competono sullo stesso mercato (non puoi combattere le uova a colpi di galline). In secondo luogo perché, in fondo, i cicli asincroni (cioè le singole stagioni) sono micromediaticamente finalizzati al compimento delle grandi strategie. Per esempio, la somma delle singole stagioni degli show ABC di un particolare anno è finalizzata alla fidelizzazione di un pubblico prevalentemente femminile nelle sue svariate declinazioni (alle quali corrispondono idealmente i singoli show). Ogni singolo uovo, cioè, contribuisce all’annuale frittata di un network (senza contare che da qualche uovo ogni tanto nasce una gallina dalle uova d’oro come può essere, nel caso di ABC, Grey’s Anatomy).

Il fatto è che dal punto di vista corporativo (e questo vale per tutto l’intrattenimento, compresi i videogiochi) è più importante mantenere un medio livello di entropia all’interno del proprio ecosistema piuttosto che rischiare una temporanea crescita dell’entropia scommettendo su una futura entropia minore.

Il concetto di entropia si adatta benissimo al tradizionale modello di business delle corporation televisive perché è possibile immaginare gli spettatori come molecole di differenti liquidi (le varie categorie di spettatore divise per sesso, età, ceto, potere d’acquisto, ecc.) all’interno di un sistema di vasi comunicanti (i network). Per ciascun network si tratta ogni anno di attirare e  fidelizzare il maggior numero di spettatori e dunque di trovare la formula climatica ideale per mescolare diversi utenti, per aumentare al massimo la mobilità degli spettatori altrui e diminuire al minimo quella dei propri, in particolare quelli che, indipendentemente da genere e ceto, rappresentano il target principale degli inserzionisti pubblicitari, cioè gli adulti fra i 18 e i 49 anni. In questo senso è del tutto ininfluente la qualità di un determinato show perché l’unica cosa che conta è la sua funzione, cioè il suo grado di efficacia nel garantire la settimanale coesione di un certo numero di spettatori e la sua efficienza nell’interazione con il resto del palinsesto al fine di mantenere la coesione della popolazione dell’intero network (cosa che, fra l’altro, contribuisce a definire l’identità o il brand).

È per questo che le grandi strategie influiscono pesantemente sull’ecosistema di un network solo quando sono cattive e protratte (come accade da qualche anno a NBC). Quando invece le grandi strategie sono ben architettate, rappresentano semplicemente la base sulla quale le singole tattiche possono essere agite efficacemente e, in seguito, valutate correttamente: la TV è sempre sperimentale, non esiste una formula vincente e ripetibile (vedi i procedural di CBS egualmente redditizi quanto fallimentari).

È in questo sistema che entrano in gioco attori con modelli di business innovativi, nuovi soggetti con una mentalità corporativa diversa come Hulu, Amazon, Apple e, soprattutto nel momento in cui decide di produrre serie TV originali, Netflix. Fino all’anno scorso Netflix non era altro che un intermediario, un provider di video on-demand di contenuti eteroprodotti. Comprava decine di migliaia di film e serie TV offrendole ai suoi abbonati al prezzo fisso mensile di otto dollari. Si tratta di un modello di business avulso da qualsiasi ciclo, perfettamente sincronizzato con le necessità del cliente (o utente): io, abbonato di Netflix, posso avere quello che voglio nel momento in cui lo voglio e, poiché la libreria di Netflix è immensa e il marketing personalizzato, posso anche scoprire di desiderare qualcosa di diverso da quello che pensavo di desiderare, posso sorprendermi dei miei desideri.

Il tutto funziona perché Netflix è in sostanza un archivio, una gigantesca biblioteca che contiene una massiccia parte dei prodotti audio-visivi degli ultimi 80 anni. Funzionerebbe lo stesso con prodotti originali? In particolare con prodotti per eccellenza asincroni come le serie televisive? È probabilmente ciò che si sono chiesti i dirigenti di Netflix, decidendo che sì, la cosa potrebbe funzionare, e allora perché non investire 300 milioni di dollari in show originali e metterli online in blocco come le vecchie serie che già offriamo? Da qualsiasi punto si guardi la cosa, è una decisione di spettacolare intelligenza che tiene conto di due fattori fondamentali:

a) L’ecosistema macromediatico si è allargato a tal punto che Internet non è più solo un competitor della televisione in quanto medium alternativo (non ho voglia di vedere la TV e allora navigo un po’) ma può competere con la TV sul suo stesso campo di battaglia (la programmazione originale, per ora — nel caso di Netflix — limitata a pochi show);

b) Entità come Hulu e Netflix hanno ulteriormente surriscaldato il clima dell’intrattenimento producendo una rapida evaporazione degli spettatori dei network tradizionali (che quest’anno hanno perduto moltissimi spettatori Live).

Se volete, questa è l’epoca del riscaldamento globale dell’intrattenimento, l’ultimo atto (per ora) della metamorfosi dello spettatore da solido negli anni ‘50-’60 a liquido negli anni ‘70-’80 a gassoso. L’entropia aumenta ma poiché Netflix inverte il rapporto di forze fra strategia e tattica a favore della prima, l’accrescimento dell’entropia è teoricamente (e qui stanno tutti i dubbi dell’operazione Netflix) funzionale al nuovo modello.

Offrendo quantità enormi di intrattenimento a un prezzo popolare e libertà di fruizione, riciclando l’esperienza produttiva dei network cable e offrendo agli autori una libertà se non assoluta, simmetrica rispetto a quella degli spettatori (i cento milioni di dollari investiti nello show di punta House of Cards servono anche a surriscaldare gli showrunner), e garantendo tempi (teoricamente) illimitati per la valutazione critica e popolare di un prodotto, Netflix ha forse trovato la formula per afferrare lo spettatore evaporante e trasformarlo in un gas perfetto.

Così, se prima di tutto la TV è stata un contenitore modellato sul solido spettatore, un oggetto (quasi più che un medium) capace di riflettere l’identità collettiva di ogni popolo-nazione, mentre in seguito si è frammentata in una serie di contenitori ai quali lo spettatore liquefatto poteva, a seconda della propria identità, adeguarsi, l’ambizione di Netflix è trasformare la TV in un contenitore di gas perfetti all’interno del quale, indipendentemente dall’entropia, la dispersione di energia dovuta all’interazione fra spettatori e forze creative possa essere se non nulla, minima.

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