martedì 18 dicembre 2012

HOMELAND: NELL'OMBRA DELL'11 SETTEMBRE

La seconda stagione di Homeland è una metonimia dell'11 Settembre e al contempo un'estensione concettuale dell'attacco alle Torri Gemelle. E' in questo senso che tutto ha senso, che non possono esistere buchi narrativi nella storia tranne per chi improvvisamente (o meno improvvisamente) vuole capire tutto, vuole spiegare tutto, o si è accorto che Homeland è Giulietta e Romeo nel 21° secolo solo ieri o ha una teoria precisa e inconfutabile sulla preparazione dell'11/9 o, magari, non ci pensa proprio perché è solo e semplicemente accaduto che le Twin Towers siano crollate.

Con la più lucida confusione possibile Homeland ricostruisce la razionalità e l'assurdità dell'attacco alle Torri Gemelle, lo fa con la misurata prudenza di chi non dimentica neanche per un secondo la differenza, l'alterità dell'altro, che l'altro sia l'altro-terrorista, l'altro-mussulmano, l'altro-patologico o l'alter ego che vorrebbe ci identificassimo — in un generoso atto di patriottismo della coscienza — con lui.

Lo fa, alla grande, con la folle idea di riempire i buchi della memoria e della storia con altri buchi, immaginando quale catena di contingenze possa mai aver aperto le autostrade del cielo a enormi bestioni metallici pilotati da kamikaze non giapponesi. Ribaltando tutto lo fa, in un finale disorientante in cui non solo l'eroe della storia sembra quel simulacro di Bin Laden chiamato Abu Nazir, ma la logica del terrorismo — come forse nella realtà — è inversa: prima muore il terrorista, poi avviene l'attentato. Prima assistiamo (come già nell'episodio della settima scorsa) a un tentativo di ricostruire una parte mancante della Storia, quando viene immaginato per Abu Nazir l'ipotetico funerale marittimo che ha ricevuto Bin Laden, poi alla ragione di quel funerale.

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E' una mossa superba che sostiene il tradizionale modello narrativo dello scacchista malvagio che sacrifica la regina per portare il pedone a promozione e, al contempo, trasforma tutti i pezzi in pezzi dello stesso colore. Se hai già punito chi ha commesso un crimine, chi resta da punire?

La risposta di Homeland è domestica, o meglio, addomesticata, perché la scelta di lasciare in eredità a Brody la posizione di nemico inafferrabile è, un'altra volta come alla fine della scorsa stagione, conveniente. Tuttavia, questa è solo una metà della verità perché il posto di Brody su una scacchiera sempre più uniforme è anche il suo luogo naturale. Provate a guardare le cose così: c'è maggiore hybris di quella di un pedone che vuole essere regina? E quante volte Brody è stato retrocesso e ha pensato di poter raggiungere di nuovo la linea delle case dell'avversario?

Può essere frustrante ma io trovo brillante che pur essendo stato regina, torre, cavallo e alfiere, alla resa dei conti, guardando la partita nel suo insieme, Brody si sia mosso semplicemente in linea retta, tenendo il centro della scacchiera in equilibrio solo per lasciare agli altri pezzi il tempo di raggiungere le case dalle quali sferrare l'attacco finale e dare scacco matto un attimo dopo averlo subito.

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E' questa partita assurda, che forse solo il Duchamp scacchista avrebbe potuto immaginare, che spiega finalmente tutto: Homeland è un gioco nel quale l'eleganza delle mosse è più importante della vittoria, nel quale, come fra vecchi amici che giocano a Risiko, l'estetica dell'equilibrio è più importante della conquista del tabellone di gioco. E lo dico sia riferendomi a Homeland in quanto show televisivo, sia alla storia che racconta.

E qual'è questa storia? L'ho già detto, ma con le parole di Saul suona meglio: "it's the smartest and the dumbest fucking story I've ever seen".

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Saul, appunto, e il suo Kaddish: un re a lutto su una scacchiera di caselle nere, una scena che, se vogliamo parlare di iconografia, non è altro che una memoria del Vietnam. Saul e la Salah per Abu Nazir... Come ho fatto a non accorgermene finora? Saul è il Sommo Sacerdote di Homeland, Il Sommo Sacerdote della CIA che deve assicurarsi che l'intelligence sia kosher e, forse, per come parla a Carrie, che la vita nella sua interezza sia kosher.

Non è anche l'idea, il sommo desiderio di Brody? In fondo il suo filmato da suicida che torna in scena con un'entrata spettacolare, con la potenza devastante di un errore decontestualizzato, è la terza preghiera dell'episodio, il "semper fi" (o l'auto da fé) di un protestante in lotta con la decadenza della sua chiesa, un crociato che non ne può più delle crociate.

E se il faraone Walden ha attirato sul suo popolo le piaghe del terrorismo, adesso che è morto saranno Saul e Brody, l'ortodosso e l'eretico, a raddrizzare la fede nella democrazia?

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Immagino Walden in un ruolo egizio perché Homeland non smette mai di far slittare l'identità e, a tratti, il terrorismo sembra un piano simile alle dieci piaghe, quello di un Dio ancora in forze contro gli innumerevoli, blandi dei dell'Occidente (che Abu Nazir ha elencato molto bene durante il suo incontro con Carrie), quello di un popolo che intende persuadere i suoi schiavisti a liberarlo (è questo che vuole dirci Homeland, che la storia del mondo ripete ironicamente la storia della Terra d'Israele?).

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E' proprio nella capacità di suggerire queste sfasature semantiche che Homeland si guadagna lo stato di grande show, di grande storia che in fondo, con tutti i suoi apparenti buchi, è meno assurda della Storia con la s maiuscola. E' vero che l'immaginazione, la narrazione fantastica, segue regole più precise della realtà ma è anche vero che quando la realtà si espande può farlo anche l'immaginazione, che il piano contorto di Abu Nazir non è più aleatorio di quello di Bin Laden e entrambi, in ogni caso, hanno funzionato.

E' questo che intendo quando dico che Homeland ricostruisce la razionalità e l'assurdità dell'attacco alle Torri Gemelle: solo attraverso una catena di contingenze è possibile immaginare quell'evento, solo una catena di buchi narrativi può rappresentarlo. Qualcosa che non è teoria ma pratica e, nello specifico, pratica di una deriva conoscitiva, interpretazione più che spiegazione. Scusate, sto diventando astratto. Ciò che intendo è che qualsiasi cosa abbia portato all'11/9, sia questa un piano ben architettato di Al Qaeda o — come nelle teorie più paranoiche — un suicidio volontario degli USA, è più importante cercare di comprendere perché siamo arrivati lì del come siamo arrivati lì. E questo è esattamente ciò che fa Homeland, più di mille film "sociologici" degli ultimi anni o delle infinite analisi geopolitiche che finiscono per mordersi la coda giustificandosi con le proprie giustificazioni.

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So bene che Homeland ha i suoi difetti perché, come tutti i punti di vista, è appunto un punto di vista e, in particolare, il punto di vista di una democrazia bigotta che demanda alla logica della necessità le azioni più turpi. Così, è chiaro che il funerale di Abu Nazir vuole rappresentare la decenza del genio democratico che rispetta persino il cadavere del suo nemico (infatti presenzia Saul, non Estes); e è chiaro che il montaggio analogico con l'attentato durante la veglia per Walden è un gesto ironico che intende mostrare quanto quel corpo inerme che cade come un fantasma nel vasto oceano (una scelta visiva perfetta se si pensa a quanto sia diventato ancor più pericoloso il cielo dopo l'11/9), quanto quel fantasma di terrorista non abbia rispetto per la vita neanche da morto. Al contempo però fa vedere molto altro, fa pensare a molto altro perché, come in tutte le grandi storie, è un'apertura, non una chiusura.

Lo stesso vale per la pietas di Quinn, un altro fedele la cui religione sono un sacco a pelo e una lattina di carne in scatola. Se vi è sembrata troppo zuccherosa la decisione di Quinn di risparmiare Brody è perché in effetti lo è. Però non è neanche quello che sembra, cioè il gesto romantico del cacciatore che risparmia il cervo (un'altra citazione dell'immaginario del Vietnam?), perché la scelta di Quinn è soprattutto una scelta che proviene dall'esasperazione, come molte di quelle che abbiamo visto nel corso della vita dello show. E', nel gioco paradossale dell'inversione dei poli, la scelta più importante dell'episodio che, più che omonimo, andrebbe detto toponomastico visto che fa della scelta un luogo che si ripete incessantemente nella geografia della storia. E se c'è una storia in televisione che ha il coraggio di scegliere e anche il gusto di farlo ripetutamente, questa è proprio quella di Homeland.

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Insomma, che altro dire? In questo finale ci sono scene meravigliose: la sottile paranoia che attraversa il casotto di Carrie e la vitrea decisione di Quinn di non assassinare Brody, il dialogo fra Brody e Dana a porte aperte, persino il dialogo fra Brody e Mike nel bar, la prigionia di Saul, l'ipocrisia di Estes. E poi l'attentato intersecato con il funerale di Abu Nazir di cui ho già parlato e che, se posso aggiungere qualcosa, celebra la distanza fra mare e fuoco, fra la trasparenza dell'acqua e l'opacità del fumo che si leva dalle macerie (vedi ancora Diplopia di Clément Chéroux); e le preghiere dell'episodio, anche queste già citate insieme ai cadaveri ordinati per ascisse e ordinata. E ancora, c'è l'esplosione di paranoia fra Carrie e Brody dopo l'attentato, una scena stupenda in cui tutte le coordinate sentimentali si sciolgono per un attimo. E l'addio di Carrie a Brody. Ci sono il grandissimo dialogo fra Carrie e Saul e, infine, la famiglia Brody di fronte al televisore: l'incubo più americano dell'episodio (pensate alla recente sparatoria), una vetta narrativa che — ancora — invece di chiudere, apre, spalanca la storia su uno scenario immaginifico che, un'altra volta, la realtà ha già superato di gran lunga.

Attraverso personaggi e immagini che girano paranoicamente a vuoto intorno alla memoria, Homeland ci suggerisce di quale morte stiamo morendo. Ci dice forse che se la Storia è maestra di vita, la memoria può essere maestra di morte.

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