giovedì 29 dicembre 2011

ENLIGHTENED · DARKENED

Devo ammettere che mi immedesimo facilmente in Amy Jellicoe, il personaggio interpretato da Laura Dern in Enlightened. Se questo fa di me una brutta persona, non ho problemi a concedervelo. E se questo fa di me una brutta persona che, pregiudizialmente, pensa che tutti gli altri siano peggio di lui e vadano cambiati, non faccio fatica ad accettare che potrebbe essere tranquillamente così.

Il mio libro di auto-aiuto preferito è Story di Robert McKee, un'opera che, quando mi sento in pace con me stesso, definisco "un'ermeneutica e un'euristica della narrazione, al contempo". Se le parole non mentono, capite molto bene quanto travagliata sia la mia pace. Ma, a parte questo, la cosa più affascinante di Story è che, lungi dall'essere un manuale di sceneggiatura, è una guida spirituale per (aspiranti) scrittori.




Dopo aver letto un po' di opere di Freud, uno si rende conto che la strategia preferita del Padre Della Psicanalisi è incominciare le sue campagne con una sola, fulminante analogia. Come ogni padre che si rispetti — anzi che si faccia rispettare — Freud usa blitzkrieg emotive per attaccare le difese del suo lettore e gettarlo in uno stato di sorpresa e terrore. Le sue opere introduttive sono Einheiten tattiche composte da mezzi corazzati intellettuali e genieri d'assalto, il cui fine primo e ultimo è sbilanciare l'avversario e assicurare una certa elasticità strategica per il prosieguo della campagna scientifica.

Esattamente quello che fa nel 1907 quando, in una conferenza su "il ruolo del sogno a occhi aperti nel lavoro creativo dello scrittore di fantasia", dice che il Dichter, il poeta o romanziere, è come un bambino perché vive in uno stato di insoddisfazione che dipende da desideri irrealizzati o irrealizzabili. Il bambino corregge lo scompenso fra desiderio e realtà con il gioco, l'adulto con la fantasia a occhi aperti e, se è abbastanza fortunato, con quel gioco che è la creazione letteraria.

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In sostanza, Freud suggerisce che ogni scrittore sia un egotico borderline che rende note le sue fantasie a un pubblico altrettanto egotico, o così egotico da riconoscervisi. Quando la transustanziazione dell'ego dello scrittore riesce sono (quasi) tutti felici e contenti. In caso contrario, cioè nella maggioranza dei casi, uno si ritrova in quella mandria di furenti bisonti, ovvero adulti non cresciuti, che sono gli scrittori senza lettere. E' per questo che abbiamo tanto bisogno di libri di auto-aiuto?




E' interessante sapere che non appena la letteratura diventa un fenomeno di massa, incominciano a spuntare i primi libri di auto-aiuto per scrittori. Di questi, il capostipite è How to Write Fiction, Especially the Art of Short Story Writing (1894) dell'americano Sherwin Cody, un imprenditore di ventisei anni che nel corso della vita sarebbe riuscito a pubblicare (nel 1896) un unico romanzo, peraltro di scarso successo. L'espressione auto-aiuto (self-help), tuttavia, non è una sua invenzione ma, according to wiki, un conio originale del riformatore scozzese Samuel Smiles che, nel 1845, pubblicò un libro per autodidatti intitolato: Self Help; With Illustrations of Conduct and Perseverance.

E' un peccato che How to Write Fiction sia introvabile online e io non abbia potuto passare il Natale sfogliandolo. Fidandomi ciecamente di questo articolo su Slate direi però che, mentre i contenuti del libro di Smiles consistono in una serie di consigli pratici per 'farsi da soli', quelli del libro di Cody paiono già consigli per 'aiutarsi a essere [scrittori]', cioè quei tipici consigli pratico-spirituali che caratterizzano la forma postmoderna del "self-help".

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La cosa dipende probabilmente dalla natura dello scrivere, una pratica che in quanto trascrizione di altre pratiche "muta la nostra collocazione nelle pratiche che esercitiamo e che si esercitano tramite noi. A differenza dell'esercizio ginnico, che è strumentale e ha il suo fine fuori di sé, l'esercizio etico [della scrittura] ha il suo fine in se stesso; cioè è una pratica sapienziale, una iniziazione del soggetto" (Carlo Sini). Insomma, scrivere è una rivelazione di ciò che siamo e di ciò che facciamo e è inevitabile che qualsiasi manuale di scrittura, consciamente o inconsciamente, debba fare i conti con questo (così come tutti i suddetti manuali fanno i conti con la reale o presunta psicologia dello scrittore fornendo direttive comportamentali come si farebbe con un bambino: lavatevi i denti e scrivete tutte le mattine).

Tutto questo per dire che i libri di auto-aiuto si dividono in due grandi categorie, il "fai da te" e l'"essere da te". I primi contengono istruzioni per ottenere il successo in una determinata attività, i secondi servono a raggiungere una sorta di successo esistenziale. I libri del "fai da te" sono essenzialmente manuali di "regole dell'arte", che l'arte sia il giocare in borsa, l'eleganza o la costruzione di un clavicembalo. Elencano le regole e le istruzioni per diventare competenti in un determinato campo. I libri dell'"essere da te" sono (o vorrebbero essere), per riprendere le parole di Sini, pratiche sapienziali, libri iniziatori. (Significa che, idealmente, uno dovrebbe prima aiutarsi a esistere e dopo aiutarsi a fare? Prima imparare a essere e poi imparare a essere elegante?)

Sono cosciente che tutta la storia della filosofia potrebbe essere intesa come un grande manuale "per essere", ma nessun testo filosofico ci aiuta ad aiutarci. Dobbiamo fare tutto noi e, dunque, fallire. Invece i manuali che ci aiutano a "essere da noi" ci danno sia il forziere con tutti i segreti (della vita) sia la chiave per aprirlo e, infine, il passepartout per qualsiasi forziere.

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E' esattamente ciò che fa Story, il quale è una interpretazione dell'atto del narrare (il forziere) e uno strumento dinamico per schiudere tutti i tesori della narrazione (la chiave), al contempo. Soprattutto, come ogni libro di auto-aiuto che si rispetti, Story è la dimostrazione che il forziere e la chiave sono la stessa cosa, così come l'arciere e il bersaglio nel grande classico Lo zen e il tiro con l'arco di Herrigel Eugen. Ovvero Story, come ogni altro 'self-help book', dimostra che il lettore del libro di auto-aiuto e il libro di auto-aiuto coincidono. Ma è davvero così?




Per alcuni anni ho avuto una storia con M., una ragazza austriaca appassionata di auto-aiuto. Ho letto libri come Le vostre zone erronee. Guida all'indipendenza dello spirito del Dr. Wayne W. Dyer (il titolo "dr." è fondamentale per gli auto-aiutatori) o Come essere il vostro migliore amico di Bernard Berkowitz, Mildred Newman e Jean Owen ma, soprattutto, lessi all'epoca molti dei libri di Bhagwan Shree Rajneesh, più noto con il re-brand 'Osho', l'equivoco filosofo/santone indiano morto nel 1990.

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Il periodo più affascinante della vita di Osho (non per le sue pubblicazioni però) è quello di Rajneeshpuram, la comunità/tendopoli che fondò in Oregon ispirato o spinto dalla 'malvagia' segretaria e portavoce, Amabalal Patel Sheela, un personaggio violento e sfuggente che è fra i perpetratori di uno dei primi attacchi di bioterrorismo negli Stati Uniti. E' una storia avvincente e, se volete saperne di più, potete leggere The Golden Guru di James Gordon (uno psichiatra che fece parte della comunità di Osho) o The Rajneesh Chronicles, una raccolta di articoli a cura di Win McCormack (un editore dell'Oregon che seguì in prima persona tutta la storia di Rajneeshpuram): il primo, un libro che può sembrare a tratti apologetico, anche se Gordon non giustifica mai i crimini della comunità (e forse dello stesso Osho); il secondo, una cruda descrizione della comunità come di una associazione per delinquere coinvolta in abusi sessuali, traffico di droga e terrorismo.




Se la terribile Sheela (che ormai, nella leggenda, è diventata un po' come la sorella di Nietzsche) era al limite illuminata dalla sua inseparabile 375 Magnum, che dire di Osho?

La parabola di Osho, filosofo, maestro, santo, santone, profeta di profonde verità e grandi stronzate, presunto collezionista di Rolls Royce, silente eminenza grigia di Rajneeshpuram o forse solo muto burattino nelle mani di 'Evil Sheela', è un esempio di quanto l'illuminazione possa essere adombrata dall'oscurità. Un antico filosofo dei contrari direbbe che è ovvio, visto che non c'è luce senza ombra, mentre un umorista cinico direbbe che la luce dell'illuminazione è così accecante che serve solo per non vedere quanto siamo stronzi.




La verità, sempre che ce ne sia una, è che a dispetto dell'uso ingenuo della parola, l'illuminazione non è un'improvvisa soluzione di tutti i nostri problemi. E' solo un'intuizione momentanea di una profonda verità, per esempio che stiamo sbagliando tutto, che non sappiamo vivere. Con ogni probabilità gli illuminati non sono quelli che procedono per il mondo con espressione ebete e beata (quelli sono più facilmente banchieri che vi hanno appena inculato), ma quelli che vivono nel travaglio e nella confusione nei quali l'epifania della luce li ha gettati.

Gli illuminati forse assomigliano più al Gesù misterioso e "nevrotico" di Marco o, meglio ancora, a quello di Nikos Kazantzakis piuttosto che a quello dell'evangelista Matteo. Nell'Ultima Tentazione, uno dei più grandi romanzi del '900 (e un libro che nella cattolica Italia sembra ancora all'indice), Gesù è giustamente riluttante nell'accettare l'illuminazione e, come saprete se avete almeno visto il film di Scorsese, sulla croce, cioè all'ultimo autogrill dell'Autostrada Divina, è ancora tentato dalla vita materiale, dall'esperienza della carnale passione di una vita umana, troppo umana.


Via Archetypes
E' per questo che, a mio parere, è importante vedere Amy Jellicoe per quello che è: una forza cieca, distruttiva e autodistruttiva, una narcisista d'assalto con allucinazioni egotico-messianiche; la persona più sgradevole e aggressiva che conoscerete quest'anno; irritante, insopportabile, egoista, farisea, ingrata, manipolatrice e prepotente. E lo dico perché ho appena passato mezz'ora al telefono con la mia vicina di casa che pensa che la mia descrizione di Amy sia crudele, persino spietata.

Per fortuna Amy Jellicoe non è Eli Stone, e il conglomerato di difetti che si porta addosso insieme alla pretesa di essere cambiata, invece di essere il fulcro di una modesta farsa sugli "illuminati", è la chiave di volta della grandiosa riflessione di Laura Dern e Mike White sul cambiamento e sul contemporaneo cinismo che spesso vi si accompagna.

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Nella Critica della Ragione Cinica, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk (che fu, fra l'altro, per un breve periodo allievo di Osho) dice:

In the twilight of the cynical structure, confessions often anticipate possible exposures. They are the rides of bravado of an irritated consciousness that now and then violently seeks "confession" (T. Reik's "compulsions to confess") in order to find an excuse and achieve a catharsis and an inner equalization of pressure. [Cito in inglese perché non posseggo la traduzione italiana.]
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Enlightened coglie la congenita ambiguità di ogni illuminazione, cioè il fatto che un'illuminazione è un punto di partenza che pretende di essere anche un punto di arrivo, che la luce dell'illuminazione si accende solo per un attimo sulla strada che dovremo seguire e che su quella strada è facile perdersi ancora e ancora come accade continuamente a Amy (così come è facile indulgere cinicamente nel compiacimento di aver compreso qualcosa che è sfuggito agli altri o nell'ipocrisia di fare qualcosa per gli altri mentre la facciamo solo per noi stessi).




E' per questo che i libri di auto-aiuto falliscono. Perché, quando sono scritti in buona fede, sono scritti da chi è già (o crede di essere già) arrivato alla fine del sentiero dell'illuminazione e pretende l'impossibile, cioè di retroilluminare la strada che ha percorso.

La genericità dei consigli contenuti nei libri di auto-aiuto e quella delle tentazioni fuorvianti ivi descritte hanno certamente un loro perché ma chi ci parla sembra ignorare che ogni tentazione si adatta maliziosamente a chi ne è tentato e, soprattutto, che ciascuno di noi è diverso di una incommensurabile diversità quando si tratta di cambiare.

Persino la psicanalisi, che è una sorta di auto-aiuto iper-personalizzato, può incontrare lo stesso problema. In The Sopranos, la dottoressa Melfi deve interrompere l'analisi con Tony perché, dopo aver letto alcuni studi consigliati dai colleghi, si rende conto che l'analisi non la ha cambiato, anzi, con ogni probabilità lo ha solo reso più efficiente nell'essere se stesso. (Quanto meno l'analisi non pretende di rivelare verità ultime se non riguardo, appunto, se stessi.)

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Per tirare le fila, se vogliamo aiutarci non facciamoci aiutare dai libri di aiuto-aiuto. "Auto-aiuto" è solo un'espressione che, segretamente, allude al fatto che certi libri, facendo leva sul nostro smarrimento, si aiutano da soli a vendersi. I libri che aiutano sono altri, i Saggi di Montaigne, Il Principe di Machiavelli, l'Oracolo manuale e arte di prudenza di Baltasar Graciàn, l'Etica di Spinoza, lo Zibaldone di Leopardi e molti altri che qui è inutile elencare.

Molti libri di auto-aiuto, a onor del vero, sono solo innocue sintesi di saggezze remote, e alcuni di quelli (come Story) sono anche utili indicizzazioni di tali saggezze (che, tuttavia, non assicurano il "successo"). Non è quello che li rende sospetti ma la pretesa di offrire un antidoto spirituale all'angoscia, che sia quella di uno scrittore, di un golfista, di un bricoleur o l'angoscia esistenziale che è alla base di tutte le altre.



Com'era da aspettarsi, Freud sviluppa un'interpretazione sua propria [del Mosè di Michelangelo]. A parte i pochi che hanno visto nella statua di Michelangelo un monumento alla grandiosità senza tempo, la maggior parte degli storici dell'arte l'ha interpretata come la calma che precede la tempesta: avendo sorpreso i figli di Israele nell'atto di adorare il vitello d'oro, Mosè è sul punto di esplodere e, nella sua collera, spezzare le tavole. Ma Freud, nell'esaminare da vicino alcuni particolari come la posizione della mano destra di Mosè e quella delle tavole stesse, giunge alla conclusione che Michelangelo ha voluto mostrarci Mosè mentre cerca di controllare la sua tempesta interiore: "Non è il prodromo a un'azione violenta, bensì il residuo di un movimento che si è appena concluso." [...] E' un Mosè molto umano che, alla pari di Michelangelo, è facile alle esplosioni di collera e che in questo momento supremo si sta virilmente controllando. [...] Si ha l'impressione che Freud veda in Michelangelo se stesso. La sua vita, come appare più e più volte, è una lotta per l'autodisciplina, per il controllo dei suoi impulsi speculativi e della sua rabbia - rabbia nei confronti dei nemici e, più difficile da dominare, rabbia nei confronti dei seguaci che si dimostrano manchevoli o sleali. (Peter Gay, Freud)

Affascinato dal Mosè di Michelangelo, Freud (che l'aveva già visto nel 1901) si trova a Roma nel 1912 e scrive alla moglie per dirle che va a San Pietro in Vincoli tutti giorni. Quando torna a Vienna, porta con sé una riproduzione in gesso della statua.

Il lavoro di elaborazione del famoso testo di Freud sull'opera di Michelangelo è lungo, meticoloso e travagliato e, come nota Peter Gay, caratterizzato da un'ossessione che può essere spiegata solo con un'interpretazione biografica. Nel 1912 Freud scrive anche a Ferenczi dicendo che "considerato il suo stato d'animo" si sente più simile al Mosè storico che a quello di Michelangelo. "Il punto cardinale," scrive Gay, "in questo esercizio di scoperta storica e artistica è quindi quello di imparare l'autodominio dello statista raffigurato da Michelangelo piuttosto che l'irruenza del capopolo di cui il Libro dell'Esodo riporta in modo così eloquente il focoso temperamento."

Come dire: se non avete voglia di leggere libri che aiutano, provate a specchiarvi nelle opere d'arte, trovate come Freud la vostra statua o il vostro quadro di auto-aiuto. Il mio è questo:





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