domenica 13 novembre 2011

MORTE E LUTTO IN FRINGE

Non è affatto sorprendente che i vari procedurali in TV abbiano una paccata di spettatori mentre Fringe galleggi a malapena nello slot del venerdì sera: i procedurali sono la rimozione televisiva del problema della morte, Fringe non è la più profonda ma senza dubbio la più coraggiosa analisi del lutto dai tempi di Six Feet Under...

Direte: ma la televisione è piena di morte e lutti! Non è proprio in tutti i procedurali (e sono tanti) che ogni settimana c'è almeno un cadavere, che qualcuno muore? E non è proprio questo l'esempio più lampante di ciò che intendo? I protagonisti dei procedurali sono perennemente distratti dal fatto che qualcuno è morto, devono indagare, analizzare, guidare i loro SUV da una parte all'altra della città, inseguire chi ha causato la morte (il colpevole della morte) e infine arrestarlo. Sono empatici questi protagonisti dei procedurali, e vorrei anche ben vedere, se no come faremmo a capire che sono umani. Eppure vivono nel diniego. E quando, saltuariamente, capita che debbano affrontare un lutto personale (prima o poi accade in ogni procedurale), un po' soffrono anche loro... anche se poi c'è sempre troppo da fare perché, insomma, ogni settimana—di nuovo—qualcuno muore.

Siamo abituati a pensare che i procedurali funzionano perché possiamo guardare gli episodi senza preoccuparci di ricordare tutti i risvolti di una storia, magari sintonizzandoci solo quando ne abbiamo tempo e voglia, ma forse il vero successo dei procedurali sta nel distrarci, come i loro protagonisti, da quei tempi vuoti della vita che possono riempirsi improvvisamente di angoscia a causa di una perdita.

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Quando ripasso nella mente la storia di Fringe rimango ipnotizzato dalla sua bellezza ma mi rendo conto che è stata raccontata con alti e bassi. Mi rendo anche conto che sono uno spettatore viziato, che voglio sempre tutto e subito, che spesso non so aspettare e che in fondo quasi nessuna storia è perfetta, quasi nessuna storia è completamente scevra di debolezze e imperfezioni.

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Ma dicevo del lutto... e dell'ultimo fantastico episodio, And Those We Left Behind. Il caso della settimana è quello di un ingegnere elettronico, Raymond (interpretato da Stephen Root), che utilizza le ricerche incompiute della moglie Kate (una fisica teorica, interpretata dalla vera moglie di Root, Romy Rosemont) per costruire una sorta di "bolla del tempo" e tornare indietro a prima che Kate si ammalasse di Alzheimer. Il problema è che i "viaggi" di Raymond possono durare solo poco meno di un'ora e che, come effetto collaterale, creano una reazione a catena di sfasamenti temporali che, alla lunga, avrebbe conseguenze disastrose. Per risolvere la questione, Peter entra nella bolla temporale dei Green e, con la complicità di Kate, convince Raymond a rinunciare all'esperimento. E' abbastanza prevedibile che Kate, dopo che Raymond le ha spiegato ciò che sta facendo, decida di non avallare la follia del marito, la sua incapacità di elaborare la perdita... e il momento in cui Raymond apre il libro degli appunti di Kate e vede che tutte le formule usate per costruire la bolla temporale sono state cancellate è splendido: una possente immagine simbolica della morte.

Nel frattempo, Peter deve adeguarsi a un mondo in cui tutti gli abitanti sembrano malati di Alzheimer come Kate. E' vero che Peter pensa che la sua perdita sia revocabile (quando Walter accetterà di aiutarlo) ma è anche vero che questa speranza non diminuisce la sensazione di lutto che avvolge il suo ritorno.

L'apparizione di Peter adulto in un mondo in cui non fu mai cresciuto è un esperimento sulla morte in una classe di paradossi nella facoltà di metafisica. Per Peter ciò significa superare la "vicina distanza" con il padre—elaborare il lutto per l'abbandono del padre—per Walter significa riprendere l'elaborazione del doppio lutto per la morte di Peter (entrambi i Peter sono morti in questa versione dell'universo). Questi lutti (perdere un padre, perdere un figlio) possono essere incomparabili dal punto di vista del senso ma sono due facce della stessa medaglia, smarrimenti del senso che l'episodio descrive con inquadrature delicate e pregnanti come quella nella quale Walter manifesta una vibrazione di orgoglio paterno quando Peter (un Peter comunque estraneo) dimostra tutta la sua competenza scientifica.

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Guardando la stagione nel suo insieme, And Those We Left Behind rappresenta il momento in cui il tempo vuoto descritto nei primi episodi si riempie di angoscia. Peter comprende di non trovarsi nel suo mondo ma in uno nel quale davvero non è mai esistito. E quando Olivia gli chiede se fra "loro" ci sia mai stato qualcosa... altrove... è chiaro che Peter non può amare questa versione di Olivia come non poteva amare Fauxlivia... è chiaro che può amare una sola e unica Olivia, cioè quella perduta. Al contempo Fringe abbraccia il mistero e il misticismo della provenienza e suggerisce che, invece, Peter il Walter "di qui" potrebbe amarlo, che in tutti gli universi possibili il padre è sempre il padre, che questo legame è l'unica costante dell'esistenza in ogni cosmo (è interessante il fatto che in Fringe le figure materne siano quasi completamente assenti).

Poiché Fringe è un show dall'inderogabile ottimismo il dialogo fra padre e figlio verrà certamente ripristinato e Walter potrà salvare di nuovo Peter. Il bello della storia però non è (e non sarà) nel finale della storia ma, come sempre, nella strada percorsa che, in questo caso, è la descrizione della nostra esistenza come una enorme elaborazione di grandi e piccole perdite, il manuale d'istruzioni per accettare la sconvolgente esperienza di sopravvivere agli altri.

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