domenica 6 marzo 2011

THE GREAT FIREWALL: THE GOOD WIFE MEETS THE SOCIAL NETWORK

Great Firewall non è solo un grande episodio ma una grande ora di televisione che racchiude alcuni degli elementi centrali dello show. Il "caso della settimana" non meriterebbe questa definizione "amministrativa" perché è al contempo un groviglio di questioni morali, una riflessione sul pubblico/privato nell'era digitale, una riflessione più che sulla libertà di espressione sull'impossibilità di garantirla e un esempio della virulenza del socialismo capitalistico cinese e del capitalismo occidentale.

Quando ho visto The Social Network la prima volta sono rimasto impressionato dalla qualità della sceneggiatura di Sorkin. Il film è una straordinaria riflessione sull'era digitale che coglie con precisione i temi fondamentali di questo inizio di millennio: l'invasione della dimensione pubblica in quella privata (ma anche le connesse pulsioni di voyeurismo/esibizionismo), la questione del diritto d'autore (e di conseguenza, in un mondo in cui ognuno può essere autore di se stesso, quella dell'identità) e il conflitto anche intra-generazionale fra chi va a tempo (o addirittura il tempo lo scandisce) e chi, come i gemelli Winklevoss, vive ancora in un confortevole elitismo e anacronismo. E, a parte tutto questo, il film di Fincher è anche una rappresentazione dell'incessante scontro/collaborazione fra legge e nuovi media. (Detto di passaggio, in un paese che è ancora fermo al '900 come l'Italia, l'impatto della tecnologia sulla politica è irrisorio mentre quello della politica sulla tecnologia devastante.)

Great Firewall prende tutti questi temi e li elabora facendo leva sul caso di un dissidente cinese (interpretato da Ken Leung di Lost) che è stato torturato dopo aver scritto (anonimamente) di democrazia su un social network americano presente anche in Cina.

Il problema è che il CEO del social network ha consegnato al governo cinese l'indirizzo IP del dissidente senza pensarci due volte e, a torto o a ragione, il personaggio di Ken Leung adesso vuole rifarsi proprio sul social network. In realtà, "rifarsi" non è il termine giusto perché al dissidente basterebbe che il social network smettesse di rivelare gli indirizzi IP e, vista la premessa, per una buona parte dell'episodio siamo spinti a credere che Will e Diane stiano seguendo il caso per una sorta di improvvisa, idealistica ispirazione. Tuttavia in The Good Wife le apparenze sono quasi sempre solo apparenze. Così quando Alicia (e noi con lei) scopre che dietro alla causa c'è Edelstein (il simil-Zuckenberg dell'universo dello show), non è difficile fare uno più uno: il caso ha più a che fare con la concorrenza fra social network per conquistare il mercato cinese che con questioni di principio.

Nonostante questo, le questioni di principio, o meglio, di diritto sono comunque l'argomento esplicito della causa che Will e Diane rischiano a un certo punto di perdere perché al tempo in cui il dissidente è stato torturato (cioè durante l'amministrazione Bush) gli Stati Uniti avevano ampliato la definizione di ciò che non è tortura. Solo questa questione sarebbe bastata a fare l'episodio ma sperare che The Good Wife si concentri su una sola cosa alla volta è solo un'illusione. E un peccato, perché il subplot della moglie tradita del dissidente (un'altra complicazione del caso) non è affatto stupido o banale, e il CEO del social network incriminato (interpretato da John Benjamin Hickey) è un personaggio nel quale arroganza intellettuale e confidenza visionaria sono dipinte egregiamente.

Alla fine—dipende dai punti di vista—vincono tutti o perdono tutti, e The Good Wife ribadisce il suo concetto preferito: non è la legge al servizio della libertà ma la libertà al servizio della legge.

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